mercoledì 14 maggio 2008

LA TRINITA'

Commento alla lettura biblica - domenica 18 maggio 2008

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28,16-20).


da: F. Barbero, Olio per la lampada, Viottoli, Pinerolo 2004
, pagg. 120-137

Queste poche righe, poste a conclusione del Vangelo di Matteo, rappresentano già un primo punto di arrivo della comunità di Matteo: il messaggio di Gesù, senza affatto escludere Israele, si apre all’universalità.

Certo, commetteremmo una imperdonabile ingenuità se pensassimo che qui abbiamo la “registrazione” delle parole di Gesù. Non possiamo nemmeno escludere che questi versetti siano l’aggiunta di un autore un po’ successivo, quando ormai la comunità si era ben strutturata anche sul piano liturgico-battesimale.

Detto quasi di passaggio, come annotazione storica assai significativa, leggendo le Scritture abbiamo certamente constatato che, mentre in Matteo si parla di un battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nel libro degli Atti degli Apostoli si parla del battesimo “nel nome di Gesù Cristo” (2,38 e 10,48). Una sana libertà “liturgica” che contrasta con l’attuale uniformità che priva le singole comunità del genio creativo... Vorrei svolgere alcune brevi considerazioni su questo testo.

Tutto viene da Dio

E’ davvero piena di fede l’espressione messa sulla bocca di Gesù al versetto 18: “Ogni potere mi è stato dato”. Dunque Gesù è ben consapevole che tutto ciò che è presente in lui, tutto ciò che ha fatto, tutto ciò che ha insegnato, tutto ciò che egli è e può fare, tutto ciò che può “trasmettere” ai discepoli non è farina del suo sacco, ma gli è stato dato da Dio.
Ancora una volta Gesù, nell’atto di sospingere i discepoli nello spazio ampio del mondo con l’invito a predicare la “lieta novella” del regno di Dio, ricorda che tutto viene da Dio. Egli è solo il testimone, l’esecutore di un “ordine” superiore, il depositario di doni e di “poteri” che vengono da Dio. Il Vangelo di Matteo, come ci spiegano chiaramente alcuni studiosi della Bibbia, ci presenta Gesù come il plenipotenziario di Dio.

Una lezione davvero preziosa per le chiese cristiane e per ciascuno/a di noi. Quando siamo tentati di pavoneggiarci in qualunque modo o per una qualsiasi ragione, faremmo bene a ricondurci nell’ottica di Gesù: “Se ho qualcosa, l’ho ricevuta. Posso solo ringraziare”.

Trinità e Scrittura

Padre, Figlio e Spirito Santo: una triade che nella dottrina ufficiale del quarto secolo si è definitivamente affermata come “dogma trinitario” (Concilio del 381).

Nella Bibbia non esiste nessuna dottrina trinitaria. “Nel Nuovo Testamento non c’è traccia dell’affermazione secondo la quale ci sarebbero tre persone in un unico Dio” (E. Boismard, All’alba del cristianesimo, Piemme, pag. 157). “Il Nuovo Testamento, nel suo insieme, non contempla nessuna dottrina della Trinità (nel senso di tre persone o ipostasi di Dio)”, scrive il teologo cattolico Hans-Joachim Schultz.

“Il primo testo che ci si presenta è quello di Matteo 28,19, secondo il quale Cristo stesso avrebbe detto ai suoi apostoli: “Andate dunque ad ammaestrare (matheteusate) tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Come interpretarlo? La Bibbia di Gerusalemme nota con prudenza: “E’ possibile che questa formula risenta, nella sua precisione, dell’uso liturgico stabilitosi più tardi nella comunità primitiva. Si sa che gli Atti parlano di battezzare “in nome di Gesù” ( Atti degli Apostoli 1,5,2,38). Più tardi ci sarà esplicitato il legame del battezzato con le tre persone della Trinità”. La maggior parte degli esegeti sostituirebbero la formula iniziale “è possibile” con “è certo”. La formula trinitaria, dunque, non risale a Cristo, ma all’ultimo redattore del Vangelo di Matteo, probabilmente verso gli anni 80.

Il problema diventa, forse, ancor più radicale. In un articolo apparso nel 1901, Fred. C. Conybeare ha analizzato le citazioni di questo testo matteano fatte dallo storico cristiano Eusebio di Cesarea, morto nel 339. E’ vero che Eusebio conosceva il testo classico da lui citato all’occorrenza, ma nelle sue opere più recenti. Infatti, e molto più spesso (diciassette volte), Eusebio cita Matteo 28,19 sotto questa forma: “Andate, fate discepoli in tutte le nazioni, nel mio nome”. Le due citazioni più interessanti si leggono nella sua Dimostrazione evangelica. Nel primo passaggio (III, 6, PG 24, col. 233) Eusebio cita integralmente Matteo 28,19 nella sua forma abbreviata, compreso il seguito del testo: “[…] insegnando loro a rispettare tutto ciò che io vi ho comandato”. Nel secondo passaggio (ibid. col. 240) prima cita le parole: “Andate, fate discepoli in tutte le nazioni”, poi commenta lungamente l’espressione “nel mio nome”, prova che egli l’avesse letta bene nel suo testo evangelico. Termina citando nel modo più completo: “Andate, fate discepoli in tutte le nazioni, nel mio nome”. Dunque è certo che Eusebio conoscesse una forma contratta del testo matteano, nel quale le parole “battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” erano rimpiazzate dalla semplice formula “nel mio nome”.
E’ ancor più difficile trascurare questa testimonianza di Eusebio di Cesarea in quanto è sostenuta da Giustino l’apologeta. Nel suo Dialogo con Trifone (39,2), composto verso il 150, egli scrisse che se Dio ritardava il suo giudizio finale lo faceva sapendo che ogni giorno “alcuni, essendo stati fatti discepoli (mathèteuomenous) nel nome del suo Cristo”, abbandonavano la via dell’errore. Queste ultime parole mostrano chiaramente che si trattava di pagani, come nel testo di Matteo.
Nella forma contratta, attestata da Eusebio e Giustino, il testo matteano offre un buon parallelo con quello di Luca 24,47: “[…] nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati. Luca avrebbe rimpiazzato il raro verbo “fare dei discepoli” con il verbo “predicare”, molto più in uso; avrebbe aggiunto anche il tema, a lui caro, del pentimento in vista della remissione dei peccati. In ogni modo, la formula trinitaria di Matteo 28,19 non può risalire a Cristo. Al massimo sarà stata introdotta dall’ultimo redattore matteano… Peraltro, anche volendo ipotizzare che essa risalga a questo redattore, la formula non costituisce una prova ineluttabile della fede in Dio-Trinità” (E. Boismard, All’alba del cristianesimo, Piemme, pag. 143).

Durante le sanguinose guerre di religione che nei secoli IV e V all’interno della cristianità provocarono migliaia di morti, cristiani per mano di altri cristiani, in nome della Trinità, avvenne – come ormai lo studio della Bibbia ha provato – che i trinitari inserirono il “comma johanneum” nella prima lettera di Giovanni: “Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono un’unica cosa”. Al riguardo il teologo cattolico Hans Kung scrive: “Per quante formule triadiche ci siano nel Nuovo Testamento, in esso non si legge una sola parola in favore dell’”unità” di queste tre entità, comunque estremamente diverse, di un’unità su un uguale piano divino. C’era certamente nella prima Lettera di Giovanni una proposizione (Comma Johanneum) che stava in connessione con la sentenza sullo Spirito, l’acqua e il sangue e, quindi, parlava del Padre, del Verbo e dello Spirito, che sarebbero “una cosa sola”. Ma la ricerca storico-critica ha smascherato questa proposizione come una falsificazione, compiuta nel III o IV secolo nell’Africa del Nord o in Spagna, e non è servito a nulla che l’autorità dell’inquisizione romana cercasse di difendere, ancora all’inizio del nostro secolo, l’autenticità di questa proposizione” (Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1997, pag. 104).

Claus Westermann, nella sua raccolta di scritti sulla teologia cristiana, non molto tempo fa scriveva: "Il problema del rapporto tra le persone della Trinità e quello della divinità e umanità nella persona di Cristo, come problema che investe dei rapporti ontologici, poteva sorgere soltanto quando l’Antico Testamento aveva ormai perso la sua importanza per la chiesa del primo cristianesimo. Dal punto di vista strutturale le questioni cristologiche e trinitarie sono analoghe alle questioni mitologiche sul rapporto fra le divinità del pantheon”.

Per quanto riguarda la formula trinitaria nella chiusa del Vangelo di Matteo, il testo originale più attendibile del comando missionario di Gesù forse l’ha ricostruito David Flusser in base ad analogie rabbiniche e manoscritti della biblioteca di Cesarea: “Andate e fate in mio nome discepole tutte le genti, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”.

Il teologo cattolico Hans Küng, raccogliendo i risultati di un enorme lavoro esegetico degli ultimi cento anni, passa in rassegna i dati biblici: in nessun testo del Nuovo Testamento, prescindendo da una lettura ingenua e prescientifica, “si trova una vera e propria dottrina trinitaria su un Dio in tre persone (modi di essere) quale verrà in seguito enunciata” (pag. 537). Le stesse formule diadiche (Padre e Figlio) e triadiche (Padre, Figlio e Spirito) non sono tanto un discorso ontologico su Dio, ma un tentativo di descrivere l’agire di Dio, la sua dinamica salvifica e di coordinare Padre, Figlio e Spirito senza affatto metterli sullo stesso piano: “Nel Nuovo Testamento si ha indiscutibilmente una unità nell’evento della rivelazione: in cui non si deve eliminare la diversità dei “ruoli”, non si deve invertire la “successione” e soprattutto non si deve mai perdere di vista l’umanità di Gesù. Anche quando lo stesso vangelo di Giovanni parla del Padre, Figlio e Spirito, anche quando Dio è definito spirito, luce e amore, non si tratta di affermazioni ontologiche su Dio in sè e sulla sua intima natura, sull’essere di un Dio trinitario. Si tratta invece, in tutto il Nuovo Testamento, di affermazioni sulle forme e i modi della rivelazione di Dio: si tratta del suo agire dinamico nella storia, del rapporto di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Le formule triadiche del Nuovo Testamento configurano una teologia trinitaria non “immanente”, ma “economica” (cioè funzionale, in funzione della salvezza, ndr), non un’unità-trinità essenziale intradivina (dunque immanente) in sé, ma un’unità in funzione della storia della salvezza (dunque economica) di Padre, Figlio e Spirito nell’incontro con noi” (Hans Küng, Essere cristiani, pag. 539). Ancor più lucidamente lo stesso autore ritorna su questo punto scottante nello stesso volume “Qui comunque non può venire messa in questione un solo momento la fede nell’unico Dio, che il cristianesimo ha in comune con l’ebraismo e l’islamismo: fuori di Dio non c’è alcun altro Dio. Ma decisiva per il dialogo proprio con ebrei e musulmani è l’idea seguente: il principio dell’unità, secondo il Nuovo Testamento con per la Bibbia ebraica, è senz’altro l’unico Dio (ho theos: il Dio = il Padre), dal quale e in vista del quale tutte le cose sono.

Nel caso del Padre, del figlio e dello Spirito quindi, secondo il nuovo Testamento, non si ha a che fare con delle enunciazioni metafisico-ontologiche su Dio in sé e sulla sua natura più intima, su un intima essenza statica, fondata su se stessa, ma aperta a noi, di un Dio uno e trino. Si ha a che fare piuttosto con enunciazioni soteriologico-cristologiche sul modo in cui Dio stesso si rivela in questo mondo mediante Gesù Cristo (pag. 106).

Né si possono usare come affermazioni dogmatiche le espressioni ternarie di Giustino e della Didachè.
Del resto, quando non si parte da una profonda indagine biblica, vengono alla luce opere come quelle di Ganoczy o di Greshake che non escono dalle “prigioni dogmatiche”.

Trinità: costruzione dottrinale

Lo stesso Küng, dopo una attenta rilettura storica delle costruzioni dottrinali dei primi cinque secoli, osserva: “Con la teologia divenuta manifesta nei concilii ci si è molto allontanati dal Nuovo Testamento. Dalla semplice e facilmente comprensibile formula battesimale triadica di Matteo era sorta nel IV secolo una speculazione trinitaria altamente complessa, che però ha potuto “risolvere” soltanto in maniera logico-formale, con distinzioni verbali, il problema di come tre “entità” possano essere una cosa sola. Effettivamente è indubbio che lo specifico cristiano non è costituito dal triadico. Lo specifico cristiano è il cristologico. No, non una dottrina su Cristo, sulla quale si deve speculare, né un dogma su Cristo, che si “deve credere”, ma, come abbiamo visto, nelle fondamentali riflessioni sull’essenza e sul centro del cristianesimo: Gesù Cristo stesso, che si deve seguire sulla via che conduce a Dio, suo Padre, sotto la guida dello Spirito Santo. Teologicamente tutto dipende dalla coordinazione, stabilita dalla Scrittura, tra Figlio, Padre e Spirito. Norma della stessa interpretazione dei concili di Nicea, Efeso, Costantinopoli e Calcedonia non può essere un’ontologia ellenistica, ma soltanto il Nuovo Testamento. Del resto anche i padri conciliari volevano tenersi assolutamente fermi al monoteismo (e ad esso però associare la divinità di Gesù) e si sarebbero rigirati nella tomba se si fosse attribuita alla loro teologia trinitaria, alla maniera dei teologi moderni, una posizione intermedia (per essi impossibile già dal punto di vista logico) tra monoteismo e politeismo.

La teologia si è pure estraniata dalla predicazione vicina al popolo. La dottrina trinitaria era diventata una tecnica concettuale, estremamente pretenziosa dal punto di vista intellettuale, una sorta di superiore “matematica trinitaria”, cui persino teologi e predicatori dimostrano in larga misura disinteresse, che però continua a presentarsi all’uomo razionale semplicemente come un “mysterium stricte dictum”, che egli dovrebbe accettare senz’altro con un “sacrificium intellectus” (sacrificio dell’intelligenza). Inoltre ancora oggi, per lo meno nella liturgia latina, le preghiere non vengono mai rivolte alla “Trinità”, ma a “Dio Padre onnipotente, mediante Gesù Cristo nello Spirito Santo”. Ma, contro ogni ragionevole domanda supplementare sul dogma trinitario, i teologi ortodossi, cattolici ed evangelici d’impostazione tradizionalistica, si immunizzano, all’interno del sistema, con il verdetto irrazionale: “Questo è razionalismo”. Naturalmente i cristiani si chiedono, in numero crescente, se tale speculazione greca, che ha cercato audacemente di spiare il mistero di Dio in altezze da capogiro, non sia forse simile al tentativo di Icaro, il figlio di Dedalo, antenato degli artigiani ateniesi, che con le sue ali fatte di penne e cera si era troppo avvicinato al sole – e precipitò” (Hans Küng, Cristianesimo, Rizzoli, pag. 200).

Nel volume “Oltre la confessione” (Torino 1988) scrivevo: "Si ha l’impressione, guardando oggi ai problemi connessi alla teologia dogmatica, che spesso si vogliono imitare certe stranezze delle ferrovie dello stato: il treno non passa più su determinati binari, ma… i binari restano! Meglio 'morti' che rimossi. Ingombrano ma… il patrimonio delle rotaie resta al gran completo. La fedeltà al piano ferroviario non sta nel 'conservare' gli antichi binari, ma nel far viaggiare il treno e collegare il binario con le 'stazioni' e le località che oggi debbono essere raggiunte. Se il treno non va dove vive la gente oggi… in realtà serve solo a visitare i monumenti del passato".

Non si tratta di accantonare frettolosamente sacramenti, dogmi o istituzioni ecclesiastiche, ma di porre mano ad un paziente e coraggioso impegno di rinnovamento reale, che non si fermi ad una cosmesi esteriore della predicazione e della dottrina delle chiesa. Infatti: “Chi vuol praticare teologia biblica deve essere capace di incidere senza pietà nella carne della propria dogmatica” (A. Oepke). L’interpretazione armonizzatrice-addomesticatrice-cosmetica diventa spesso uno strumento che stabilizza acriticamente la situazione attuale con la pratica dell’aggiornamento.

Invece è possibile, senza disprezzare il passato, cercare di assumere la nostra responsabilità verso il futuro: “I diversi documenti e monumenti ecclesiastici della tradizione – simboli di fede, decisioni pontificie, conciliari ed episcopali, opere dei Padri della Chiesa e teologi, catechismi, liturgie, pietà ed arte ecclesiastiche – vanno compresi come strumenti per l’interpretazione dell’originario messaggio biblico. Niente più e niente meno” (Hans Küng, Teologia in cammino, pag. 58). "Siamo ormai lontani dai tempi in cui potevamo tranquillamente riposare sull’ideologia continuista che soggiace, per esempio, alle produzioni cristologiche di Alois Grillmeier. Molti studi recenti documentano un rapporto tra Bibbia e dogma assai più complesso e ben meno lineare”. Il teologo cattolico Anton Houtepen nel suo scritto (Dio, una domanda aperta, Queriniana, Brescia 2001) scrive alcune pagine assai significative sulla necessità di ricomprendere il rapporto Dio-Gesù: “Il Dio di Israele è lo stesso Dio che Gesù invoca come proprio “Padre”….Il Dio delle nazioni è il medesimo Dio che Gesù chiama spirito e soffio divino….Chi parla di “un Dio in tre persone” deve spiegare un bel po’ di cose, dato che non si può certo trattare di una pluralità di persone nel modo umano e nell’accezione umana. Dio non è una sorta di regia tricipite del mondo oppure un equipaggio tricefalo della navicella spaziale Cosmo” (pag. 220). Le ipostasi divine non possono tradursi semplicemente con “persone”: si tratta di “personificazioni”. Il che è ben diverso!!! Per il nostro Autore “La dottrina classica della trinità divina e di Gesù quale seconda Persona eterna del Dio trino…è un’altra immagine per presentare il mistero” (pag.220). Aveva davvero ragione Franz Kellendonk: “E’ terribile che, non appena si fissa qualcosa con parole, esso si irrigidisce. Vi è il pericolo di ritenere poi che le cose stiano davvero come si dice che siano”. Si genera così un fenomeno strano: una metafora, un simbolo, una immagine, una dottrina, una formula, vengono pensate, diffuse e difese come se fossero “la verità”. In teologia non esiste equivoco peggiore. Nel Dizionario delle teologie del Terzo Mondo la teologa brasiliana Irone Gebara scrive: “Mentre questo millennio sta per giungere al termine, numerosi studi critici, specialmente gli studi delle teologhe femministe, hanno aperto un dibattito storico, filosofico e teologico sulle diverse componenti della teologia trinitaria. La dottrina della Trinità è contrassegnata non soltanto da una visione sessista della realtà divina, in quanto storicamente le tre persone sono espresse al maschile, ma da una visione che implica una concezione particolare della persona umana presa a prestito dalla filosofia greca. Questo concezione proietta su Dio l’idea che un essere può essere unico e personale e, nel medesimo tempo, molteplice, cioè tre persone che agiscono in modo indipendente e tuttavia in relazione tra loro. Questo concetto di persona porta chiaramente l’impronta di una filosofia idealistica che è il prodotto di un momento particolare nella storia del cristianesimo. Alcuni teologi contemporanei non soltanto criticano la filosofia presente in questa concezione, ma cercano di “reimmaginare” vie diverse per giungere a una comprensione più giusta e corretta (pag, 428). Così “ci si lascia alle spalle un concetto astratto e metafisico. In questo momento le forze conservatrici e fondamentaliste stanno cercando di ristabilire le dottrine tradizionali, il che significa sicurezza, ordine e ubbidienza gerarchica. Si pensa che questi atteggiamenti siano determinanti per conservare la fedeltà a un certo cristianesimo e per mantenere una società che privilegi i piccoli gruppi…Ciò che è certo è che non possiamo più attenerci ad un’unica concezione dogmatica, ignorando le differenze culturali e i problemi specifici posti dai diversi gruppi umani (Ivi, pag 429). Queste e mille altre voci richiedono a gran voce di sottomettere le formulazioni dogmatiche al vaglio della Scrittura e della storicità delle culture e dei linguaggi.

Credere e interpretare

“Non si tratta di gettare via un dogma, ma di interpretare per il presente, in forma differenziata, la dottrina classica della Trinità, con un vigoroso ritorno alle fonti bibliche” (Cdb Pinerolo, Il vento di Dio, pag. 67, Pinerolo 1984).

In una stupenda e graffiante pagina don Otello Galassi scrive: "Ognuno ha i suoi tabù. Qualcuno, a quanto pare, ha la Trinità. Se si potesse chiedere al pescatore Pietro lumi in merito, non si andrebbe lontano dal vero a raffigurarselo alquanto perplesso. Perplessità condivisa, del resto, anche dagli altri amici pescatori. I casi sono due: o la Trinità è talmente autoevidente, talmente continua nel tempo e nello spazio per cui Trinità e Cristianesimo assieme stanno o assieme cadono; oppure sarebbe meglio ancorare i propri tabù a qualcosa di più sicuro. Anche perché non credo che qualcuno pur di salvare l’idea 'chiara e distinta' della Trinità sia disposto a cancellare l’inizio storico del Cristianesimo (a partire dal povero pescatore Pietro ed amici).
Agostino di Ippona, vescovo, era cosciente che con la Trinità si va su di un terreno linguisticamente scivoloso. Scrive nel De Trinitate: 'Tuttavia se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza dell’umano linguaggio. Certo si risponde: tre persone, ma più per non restare senza dir nulla, che per esprimere quella realtà (non ut illud diceretur sed ne taceretur)'.
Tanto per citare un teologo ormai ad usum Seminariorum, un piccolo assaggio di K. Rahner, Schriften zur Theologie: 'Questa difficoltà di linguaggio nei confronti della Trinità andrebbe tenuta presente... Pur nel pieno rispetto delle regole linguistiche della dottrina trinitaria classica, si potrebbe dire che il discorso delle tre persone e addirittura della stessa Trinità (non reperibile nel Nuovo Testamento) non è incondizionatamente necessario per esprimere quel che il Cristianesimo intende propriamente dire con la dottrina trinitaria...'.
Ed ora la cosa più seria: usare la Trinità come arma impropria mi fa pensare a tutti quelli che, per aver tenuto in casa una Bibbia non autorizzata e messo in dubbio le basi bibliche del Purgatorio, hanno avuto la fortuna di vedere accelerati i tempi per andare a contemplare la sospirata Trinità".

Non è questo lo spazio per documentare più ampiamente migliaia di studi che meriterebbero almeno una menzione. Penso alle ricchissime elaborazioni delle teologie femministe. Ma è evidente che si fa strada una concezione che, liberandosi dall’ossessione dogmatica, privilegia la “narrazione” delle opere di Dio. In queste ricerche la Trinità non è la descrizione della vita intima di Dio, ma un linguaggio analogico, simbolico. Si tratta di una “costruzione teologica” che cerca di esprimere, sempre in modo imperfetto ed allusivo, come Dio agisce in rapporto al mondo, come opera la salvezza. La formula ternaria di Matteo è altra cosa dalla “dottrina trinitaria”. Essa piuttosto allude al “movimento” con cui il Dio della salvezza ci viene incontro.

Dio, l’unico Dio, fonte della vita, non è solipsista, chiuso in sè, ma è un Dio di amore e di relazione. Egli (le teologie femministe dicono anche “Lei”) riversa il Suo amore e ci viene incontro, si rivela storicamente per noi in modo eminente in Gesù di Nazareth, testimone ed “epifania di Dio”. Ma Dio non solo origina la vita e si manifesta in Gesù, ma è anche forza che sostiene il nostro cammino, vento (= spirito) che ci sospinge al bene, consolatore-sostegno-difensore (paraclito) nei giorni del nostro pellegrinaggio.

“Si tratta innanzitutto di Dio che si manifesta nella creazione e, in maniera singolare, nel popolo ebraico come popolo di Dio. Secondo: Dio si manifesta in Gesù e allora si parla di Figlio di Dio. E, terzo, vi è una manifestazione di Dio nella vita della chiesa e in tutta la creazione: è lo Spirito Santo. E’ lo stesso Dio: Dio nell’Antico Testamento, Dio in Gesù Cristo, Dio nello Spirito Santo, ma sono modi di esistenza di Dio nella storia” (E. Schillebeeckx).

Il linguaggio ternario, che del resto si trova anche in parecchie religioni antiche, non è al riparo da alcuni fraintendimenti e spesso viene inteso con una “forte tendenza verso il triteismo, come se Dio fosse tre esseri, tre persone nel moderno senso psicologico del termine” (E. A. Johnson, Colei che è, pag. 376). Il simbolo della Trinità non è la fotocopia del funzionamento interno della divinità, non è l’offerta di una informazione esoterica su Dio. In nessun senso è una descrizione letterale dell’essere di Dio in sè... Esso è un simbolo che allude indirettamente alla relazionalità di Dio... (pag. 398), al Suo amore che non cessa mai di manifestarsi e di sospingerci. “Dicendo che Dio è tre persone, temo di fare una specie di triteismo: tre dei, tre persone come una specie di famiglia” (E. Schillebeeckx). In questa prospettiva mi pare molto significativo quanto scrive Eduard Lohse: “Le formulazioni che troviamo al termine del vangelo di Matteo (Mt 28, 19 ss) risalgono in parte ad espressioni liturgiche della comunità primitiva, in parte invece alla mano dell’evangelista, il quale vorrebbe ancora una volta sottolineare l’importanza dell’ insegnamento di Gesù per i suoi discepoli. Se si parla del Battesimo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, questa formula non può venire intesa nel senso della dottrina trinitaria, la quale si è formata solamente in un periodo successivo. Piuttosto, la breve espressione “nel nome di Cristo” (cioè del Figlio), è stata ampliata….” (Compendio di teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, pag. 87).

Gli studiosi della Bibbia, mentre ci aiutano a non caricare di valenze dogmatiche alcuni linguaggi poetici ed allusivi (c’è sempre chi pretende di scattare la fotografia di Dio!), ci ricordano che “questo simbolo del santo mistero nasce dall’esperienza storica della salvezza e che esso parla della realtà divina non in maniera letterale, ma per via di analogia. La Trinità è un simbolo che si sviluppa storicamente partendo dall’esperienza religiosa del Dio di grazia che ha incontrato gli ebrei e poi i gentili attraverso Gesù di Nazareth, nella potenza dello Spirito… E’ una costruzione teologica che codifica il Dio liberante incontrato nella storia. Se non si fa attenzione a questo radicamento nell’esperienza, la speculazione sulla Trinità può degenerare in selvagge e vacue acrobazie concettuali” (E. A. Johnson).

Edward Schweizer scrive: “A poco a poco ho appreso da molti miei colleghi a vedere nella dottrina della Trinità non una definizione di Dio, quanto piuttosto un resoconto narrativo su una persona vivente”.

Potrei citare una lunga serie di teologi e teologhe che ci mettono in guardia dalla nostra eccessiva “speculazione” sulla Trinità. E’ davvero prezioso questo richiamo a non presumere di smontare il mistero di Dio, ma accettare di alludervi con immagini, simboli, metafore: “La Trinità quale noi la intendiamo è come le tre dimensioni inseparabili dello Spazio che è uno: l’altezza, la lunghezza e la larghezza non formano tre spazi differenti” (Shafique Keshavjee).

Vent’anni fa scrivevo nel volume Il vento di Dio: “La valenza, il dinamismo triadico così vivamente presente nell’unico evento salvifico sono tutt’altro che insignificanti. Il Dio biblico non è solipsista, chiuso nella sua sua “monarchica” torre d’avorio: Dio è per noi relazione, dialogo, amore che si comunica e trabocca. L’unità-unicità del Dio biblico è quella sorgività inesauribile che ci inonda con le sue acque salutari. Nello stesso tempo Dio è movimento che spinge a uscire dalla prigione narcisistica del proprio io. Dire Dio significa dire relazione, comunione, apertura al tu. In certo modo possiamo dire che il cristiano non può, se entra nella via di Gesù, non aprirsi a questo ritmo triadico per far posto al dinamismo di Dio. Solo l’ossessione maschile e l’ossessione teologico-razionalistica hanno potuto fare, del Dio uno, un Essere “monarchico”, autoritario, sessista, prodotto ad immagine e somiglianza di una chiesa che ha troppo spesso la presunzione di possedere la carta d’identità di Dio stesso e che da secoli è prigioniera della maschilità. Forse bisogna riprendere la via umile del linguaggio biblico che è allusivo, “femminile”, simbolico. Si può parlare di Dio solo con parole povere, con parole deboli. La “simbolica trinitaria” è essenziale nelle sue valenze per la nostra fede: essa allude, contempla e tenta di esprimere la realtà profonda di Dio attraverso la sua azione. La unità di Dio è unità aperta, conviviale, unificante” (pag. 67).

Testimoniare non propagandare

In ogni caso noi siamo inviati nel mondo non a far propaganda di una religione o di una chiesa o a far pubblicità del “nostro Dio”. Siamo semmai inviati/e a dare testimonianza. Il che può avvenire se siamo vitalmente, realmente coinvolti dal mistero amoroso di Dio (il Padre), sulla strada di Gesù (il Figlio), se facciamo affidamento sulla forza e sul “vento” che viene dall’alto (lo Spirito di Dio).

Sono sempre stato e sono un umile cantore di questa Trinità nella consapevolezza, come scrive il teologo cattolico Claude Jeffré, che “attualizzare la tradizione significa proporre nuove interpretazioni della Scrittura, dei simboli di fede, delle formule dogmatiche” (Credere e interpretare, pag. 47). “Sarebbe paradossale se i testi della Rivelazione potessero essere oggetto di un’interpretazione e noi non avessimo invece la stessa libertà per interpretare i testi della tradizione dogmatica” (Idem, pag. 44). E’ ovvio che questa lettura della Trinità in categorie bibliche e simboliche non mancherà di sollevare allarmi in quei cristiani per i quali, come scrive René Nouailhat, “la mera ripetizione delle formule fa le veci della dimostrazione”. Se Maurice Sachot sostiene che il colpo fatale portato al pensiero cristiano deriso dalla sua istituzionalizzazione (E’ proprio questo e non le invasioni “barbariche” a far sì che, in breve volgere di tempo, il pensiero non sia più se non l’ombra di se stesso, essendo ormai diventato l’immagine dell’istituzione”), io aggiungerei che tale istituzionalizzazione ha prodotto una dogmatizzazione del cristianesimo che spesso ha messo in subordine non solo la ricerca ma anche il primato della prassi.In questa stagione in cui la gerarchia reprime ogni libertà di indagine e di espressione a causa di una deriva autoritaria che sta “flagellando” il tessuto ecclesiale, può essere davvero salutare il richiamo sia alla ininterrotta tradizione plurale sia ai tentativi argomentati e costruttivi di quanti cercano di testimoniare ed enunciare la fede liberandola dalla “blindatura sistemica” che la riduce ad un discorso di autorità. Se la fede si riducesse al “catechismo della gerarchia cattolica” noi avremo soltanto il compito di trasmettere un repertorio, ma la “buona novella” non può inaridirsi in un elenco di dogmi.

Per ogni esegeta di formazione storico-critica oggi è incontestabilmente chiaro che Gesù non ha mai avanzato la pretesa di essere considerato il “Messia” (il Cristo) e che, anzi, ha esplicitamente proibito ai suoi discepoli perfino di parlarne (Mc 8, 29-30), perché idee di questa fatta a quel tempo si accompagnavano troppo con le aspettative di un potere teocratico-apocalittico; ciò che Gesù semmai voleva incarnare era l’attesa del “figlio dell’uomo”, così come il profeta Daniele (7, 13-14) lo faceva sperare alla fine dei giorni. Gesù vedeva il suo tempo “alla fine”, non diversamente, 600 anni più tardi, da Maometto , non diversamente da, più o meno, tutti i profeti; tutti desideravano un mondo totalmente nuovo, un mondo diverso, nel quale guerra, ingiustizia e sfruttamento non facessero più parte della “normalità”. Mai Gesù avrebbe approvato i concetti metafisici con i quali i teologi “cristiani” già alla fine del I secolo avevano cominciato a riferire a lui, l’uomo di Nazareth, le immagini mitiche della “divinità” e della “figliolanza divina” del “re” (del “Messia”) provenienti dall’Antico Oriente. Gesù non voleva che lo si divinizzasse, voleva che si facesse quello che diceva e che, attraverso di lui, si venisse indirizzati a Dio: “Non chiunque dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt, 7-21): con queste parole Gesù conclude, nel vangelo di Matteo, il discorso della montagna; e al giovane ricco che gli si rivolge chiamandolo: “Maestro buono”, dà subito sulla voce per correggerlo: “Perché mi chiami “buono”; nessuno è “buono” tranne uno solo: Dio!” (Mc 10, 17-18).

In sostanza è solo questa “teologia” del tutto ebraica di Gesù di Nazareth che il Corano rappresenta, quando dichiara (3, 80): “Non si addice ad un semplice mortale dire alla gente: “Pregatemi accanto ad Allah”; dica invece: “Perfezionatevi nella Scrittura”. E’ vero che il Corano riprende le leggende della procreazione verginale di Gesù (19, 17-41); cfr 3, 37-52), ma si oppone decisamente all’idea che Dio procrei “figli” e “figlie”, e che Gesù sia Dio (cfr. 2, 171; 4,172-173; 5,18; 6,102; 10,69;112,1-5). Fin da principio cadono, quindi, tutte le stranezze della dottrina “cristiana” della Trinità, la cui storia in Occidente ha segnato una catena di violenze, emarginazioni e distruzioni disumane nei confronti di interi popoli e culture. E come,detto apertamente, sarebbero potute andare diversamente le cose con un dogma che, già nel I concilio della cristianità, quello di Nicea nel 325, a prescindere da ogni formulazione, doveva, in ultima analisi, servire all’imperatore Costantino per dare uniformità ideologica ai sudditi del suo impero? Quanto più “regale” e “divino” veniva dipinto Gesù dai suoi difensori, tanto più gli imperatori, i re e i papi si presentavano nel rango di sovrani “per grazia di Dio”, caratteristico dei manarchi assoluti. Si può dire solo questo: la causa di Gesù non poteva essere più malignamente trasformata nel suo contrario (Eugen Drewermann, C’è speranza per la fede?, Queriniana, pagg. 177-118).

E’ proprio il desiderio di collegare la fede alla vita che ci libera dai fardelli inutili e ci restituisce la libertà negata di “dire Dio oggi” con l’amore dei nostri cuori e i linguaggi delle nostre culture. Tutto ciò nel pieno rispetto di altre elaborazioni teologiche.

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