giovedì 26 giugno 2014

FESTA DI PIETRO E PAOLO

Matteo 16, 13-19

 

13Arrivato Gesù nel territorio di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?» 14Ed essi risposero: «Alcuni dicono che sei Giovanni Battista, altri Elia, e altri Geremia, o uno dei profeti ». 15« Ma voi», domandò loro, «chi dite ch'io sia? » 16Rispose Simon Pietro, confessando: « Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente ». 17E Gesù gli rispose: «Beato te, o Simone, figlio di Giona, perché non la carne né il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio, che è nei cieli. 18Ed io dico a te, che tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno mai prevarranno contro di lei. 19E a te darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli ».

 

UN TESTO MANIPOLATO
Solo una tardiva e manipolata lettura del testo ha potuto lentamente nel secondo millennio mettere questa pagina, che troviamo solo nel Vangelo di Matteo a fondamento e legittimazione del potere, facendo del papato una monarchia assoluta, centralizzata. Tra la persona di Pietro e la figura del "pontefice romano" esiste una discontinuità totale. Quando sento dire che Pietro è stato" il primo papa", penso che l'umorismo di cattivo gusto non ha limiti e l'ignoranza storica nemmeno. Leggere in chiave di potere queste righe del Vangelo comporta un clamoroso travisamento. La comunità di Matteo ha visto nella fede di questo discepolo un punto di riferimento per la sua fede, per la sua sequela di Gesù, anche se segnata da tradimenti e fragilità.

È noto, detto di passaggio, che il suo martirio a Roma è questione di cui discutono gli storici (si veda il bel libro di Carlo Papini edito dalla Editrice Claudiana su Pietro a Roma), senza aver raggiunto una certezza.

Ma questa domenica, dopo la visita di papa Francesco in Calabria, penso che sia utile riflettere brevemente su un fatto: quando nella chiesa ci sono ministri che si svestono dei panni sacrali e cercano di convertirsi ad un ruolo di servizio, succede qualcosa di evangelico.

Il popolo di Dio, dopo anni di pontificato di potere, vede oggi in Francesco profilarsi l'immagine e la realtà del servitore. Il potere cede il posto, inizia a cedere il posto, ad una autorevolezza che non ha nulla di sacralizzato.

Non possiamo né scommettere tutto sul papa, né rilassarci perché ora c'è un pastore accogliente. Sarebbe un vero travisamento ed un errore terribile per la chiesa.

Siamo forse chiamati a sostenere in ogni spazio ecclesiale una pratica del servizio, a portare noi stessi nella comunità e nel mondo questo stile.

Non è il caso di illudersi. Solo la "conversione", della chiesa, che siamo noi, è la svolta evangelica alla quale Dio ci chiama, ma questa volta compare un pastore che, in molte parole e in molti gesti, ci fa pensare a Gesù, ci invita a guardare ai poveri con impegno di solidarietà.

UNA SCOMUNICA CHE CONTA
I giornali riflettono in giornata su ogni evento. Io credo che sulla decisione del Papa di scomunicare i mafiosi, di condannare la mafia e 'ndrangheta noi cristiani dovremmo riflettere a lungo e trarre alcune conclusioni.

Le parole del papa sono chiare, inequivocabili. Esse segnano in profondità e limpidezza il carattere pastorale del ministero di papa Francesco: è schierato contro i poteri forti, le macchine, la finanza speculativa, le multinazionali che sfruttano i poveri, l'industria bellica.

In questo suo secondo anno da vescovo di Roma si nota, su questi terreni, una grande coerenza evangelica.

Ecco perché la persona del papa è a rischio dentro la chiesa e nei vari momenti pubblici del suo ministero. Si è schierato ed esposto. Ci sono conseguenze per le chiese locali e per ciascuno di noi. Ogni complicità con forme di illegalità significa contrastare una scelta che molte associazioni, comunità, parrocchie, istituti religiosi, comunità monastiche, vescovi e lo stesso papa hanno compiuto.

Questa è una scomunica che conta perché è pronunciata dal papa, ma è parte della coscienza diffusa del popolo di Dio. Qui è una scomunica richiesta da una larga parte della chiesa.

UN PASTORE CHE SI SPENDE
Carceri, sofferenti, la "gente comune",  i preti delle parrocchie: la visita del papa in Calabria è stata la conferma che Francesco è, sulle tracce di Gesù, un pastore che non si risparmia.

Ci possiamo domandare se le nostre chiese locali, spesso un po' addormentate, raccolgano queste sollecitazioni. La risposta non può che partire da ciascuno/a di noi.

In tutti questi mesi abbiamo notato con gioia uno spostamento di asse: da "sommo pontefice", a "vescovo-pastore". Papa Francesco non ha contraddetto teologicamente quel tragico dogma che culminò nella dichiarazione dell'infallibilità papale del 1870. Questo macigno dogmatico, che non trova alcun appoggio biblico nelle Scritture (la lettura di oggi non fece mai pensare nei primi secoli al papato, come ho documentato più volte su questo blog), resta purtroppo ancora nell'insegnamento ufficiale cattolico.

Tuttavia sia lo studio biblico, sia una nuova coscienza ecclesiale, sia questi comportamenti di Francesco possono costituire una premessa, uno stimolo ad un totale ripensamento del ministero del vescovo di Roma. Passo dopo passo, con speranza attiva.

Franco Barbero