lunedì 28 settembre 2015

Le minoranze: alla fine ha mediato

«Adesso vedremo il testo e capi­remo se quella di Renzi è una pro­po­sta vera. Se il voto degli elet­tori sarà vin­co­lante, come lo era per la legge Tata­rella, per noi va bene». Alfredo D'Attorre, che è ufficial­mente il nuovo ber­sa­glio pre­fe­rito di Renzi ora che Ste­fano Fas­sina se n'è andato, alla fine della dire­zione è più che pos­si­bi­li­sta. La mino­ranza dem, che pure nel corso del dibat­tito ha dato espli­citi segnali posi­tivi, non par­te­cipa al voto sulla rela­zione del segre­ta­rio. I numeri sareb­bero stati tri­sti e soli­tari, meglio non con­tarsi. E così fini­sce con un anti­e­ste­tico «sì» all'unanimità: zero contrari, zero aste­nuti. Ma la ver­sione uffi­ciale è un'altra. «Non abbiamo par­te­ci­pato al voto per­ché la riforma costi­tu­zio­nale non è cosa del par­la­mento», dice D'Attorre. E del resto il voto della direzione non è for­mal­mente vin­co­lante per i gruppi par­la­men­tari: sui temi costi­tu­zio­nali i regolamenti dem lasciano libertà di coscienza. Renzi indub­bia­mente porta a casa un suc­cesso, ma D'Attorre non si sente scon­fitto: «La verità è che la mag­gio­ranza al senato è molto meno sicura dei numeri di quello che dice. E per come Renzi ha cari­cato il pas­sag­gio poli­tico, se la riforma fosse appro­vata con i voti deter­mi­nanti di Ver­dini sarebbe costretto a salire al Colle». Con le imprevedibili con­se­guenze del caso.
Ma anche la mino­ranza tira un sospiro di sol­lievo. Dubbi e scon­tenti non man­cano. Nico Stumpo lascia la dire­zione dopo il discorso di Renzi. Felice Cas­son nean­che ci va, va invece alla Zan­zara di Radio24 e spiega: «È inu­tile, se si vuole fare un con­fronto serio si poteva fare da due mesi, si dice sem­pre ma non si fa mai». Miguel Gotor avverte: «La Costi­tu­zione esige chia­rezza: non c'è biso­gno di bizan­ti­ni­smi e giri di parole». Ma da que­sta parte nes­suno punta alla rot­tura insa­na­bile. Renzi lo sa e per que­sto prima di arri­vare alla pro­po­sta di armi­sti­zio si toglie il gusto di sfot­tere la compagnia: «Le scis­sioni fun­zio­nano molto come minac­cia, un po' meno nel pas­sag­gio elet­to­rale. Chi di scis­sioni feri­sce, di scis­sioni peri­sce», dice. Ce l'ha con l'ex mini­stro greco Varou­fa­kis, il grande scon­fitto del voto greco, ma l'allusione è ai (pre­sunti) scis­sio­ni­sti di casa sua è più che esibita.
Alla fine Renzi pro­pone quello che da qual­che giorno cir­cola con il nome di «lodo Chiti». I sena­tori ver­ranno «desi­gnati» dai cit­ta­dini nel voto regio­nale e rati­fi­cati dai con­si­gli. Il modello è quello dell'elezione dei gover­na­tori negli anni 90, prima che ne fosse san­cita l'elezione diretta. Così furono votati Van­nino Chiti e Pier­luigi Ber­sani, lascia cadere nel discorso con finta non­cu­ranza. E con pre­ce­denti così chi può par­lare di «attacco alla democrazia»?
Infatti da Modena, dove con­clude la festa dell'Unità, Ber­sani parla di «aper­tura signi­fi­ca­tiva: se si intende che gli elet­tori scel­gono i sena­tori e i con­si­gli regio­nali rati­fi­cano va bene, per­ché è la sostanza di quello che abbiamo sem­pre chie­sto». In realtà sabato l'ex segre­ta­rio aveva par­lato di irri­nun­cia­bile «senato elet­tivo», sca­te­nando le rea­zioni della segre­te­ria («No ai dick­tat»). E la verità è che il senato non sarà elet­tivo. Ma è scop­piata la pax ren­ziana, e l'idea di rischiare un cam­bio di mag­gio­ranza fa diven­tare tutti più buoni. Lorenzo Gue­rini cer­ti­fica: quella di Ber­sani «è un'apertura posi­tiva. Non pos­siamo che esserne con­tenti». Mat­teo Orfini, che sabato aveva attac­cato i com­pa­gni «fal­chi» sta­volta parla di «spi­rito comunitario».
Al terzo piano del Naza­reno il filo il primo a annun­ciare il sì della mino­ranza è Gianni Cuperlo, che del resto aveva già dato il suo via libera sabato: «Non è in corso un brac­cio di ferro o una prova musco­lare e non ci devono essere dik­tat», dice, e sem­bra aver­cela più con l'ex segre­ta­rio che con l'attuale, «biso­gna tro­vare uno sbocco da riven­di­care come suc­cesso comune» in cui «cia­scuno rinun­cia a qual­cosa» e non cede alla ten­ta­zione di «esi­bire uno scalpo». Con­clu­sione: il lodo Chiti «può rap­pre­sen­tare il punto con­di­viso, che rico­no­sca l'utilità di un cri­te­rio più diretto di sele­zione da parte degli elet­tori, con una rap­pre­sen­tanza legit­ti­mata da un voto popo­lare, man­te­nendo ai con­si­gli regio­nali il com­pito di una for­male rati­fica. Su que­sta base pos­siamo man­dare all'esterno un mes­sag­gio di unità».
Daniele Preziosi

(Il Manifesto 22 settembre)