lunedì 15 febbraio 2016

UNA NORMAILITA' CHE FA CLAMORE

Raffaele Garofalo
IL PONTIFICATO DI FRANCESCO
Una normalità che fa clamore
Società Filosofica Italiana
Sezione di Sulmona ‘Giuseppe Capograssi’
2015
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Agosto 2015
ISSN 2281-6569 SFI, Sezione di Sulmona Giuseppe Capograssi [online]
Raffaele Garofalo (Pacentro), prete.
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Rivoluzione o riforme? Cosa avverrà nel Sinodo e dopo di esso?
S. Freud e J. Lacan erano convinti assertori che le “rivoluzioni” sono portatrici di nuove idee ed
entusiasmi, ma spesso finiscono per trascinare con sé disastrose “restaurazioni”. La Storia sembra
dar loro ragione. I veri cambiamenti, si sostiene, sono frutto delle buone riforme. Subito dopo la
prima intervista rilasciata a Scalfari da papa Francesco, il “vescovo di Roma” offriva spunti di
riflessione davvero rivoluzionari sui quali successivamente è tornato nei numerosi interventi e
documenti. Bergoglio “ha aperto il cuore anche a molti che pensavano di averlo chiuso a doppia
mandata” alla Chiesa, scrivevo più di un anno fa. La fiducia in lui è venuta crescendo sempre più,
ma si è anche affacciata, man mano, qualche perplessità riguardo al futuro della Chiesa che lui sta
delineando. Usare il suo linguaggio e compiere i suoi gesti prima di lui non riscuoteva lo stesso
consenso. Equivaleva a “favorire il lassismo”… “screditare la dignità propria e della comunità
ecclesiale”. Eppure il vangelo era lo stesso, gli stessi i testi del Concilio da poco concluso.
Indossare una sobria tunica nelle celebrazioni equivaleva ad “attentare alla sacralità” della liturgia.
“Curare le ferite in un ospedale da campo” mostrandosi comprensivi verso i peccatori, anche quelli
“pubblici” (i divorziati risposati, gli omosessuali, le prostitute, i carcerati…) significava dare
scandalo più delle persone avvicinate. Sostenere che il sesso è creato per la riproduzione della
specie ma anche per la mutua manifestazione d’amore nella coppia, voleva dire essere “licenziosi”.
Coloro che parlavano e si comportavano in tal modo erano anch’essi convinti di trovarsi in un
campo di battaglia, secondo la metafora di Francesco, per curare le ferite dell’umanità. Ferite che
spesso procura la Chiesa stessa con leggi insostenibili. Questo scrivevo nel gennaio 2014. A più di
due anni di distanza le accuse, una volta mosse ai figli “impazienti” del Concilio, sono ora rivolte a
papa Francesco da una grossa parte della Chiesa istituzionale legata ad un passato preconciliare.
Marco Politi ha scritto di lui che “ ha spezzato l’immagine di una Chiesa madre matrigna… non
conosce le barriere tra credenti e non credenti …è vicino alle angosce di uomini e donne di ogni
credo, ma in Vaticano crescono le resistenze ai suoi programmi di rifondazione della Chiesa, come
la partecipazione dei vescovi al governo ecclesiale, l’inserimento delle donne ai vertici decisionali,
l’approccio nuovo a divorziati e omosessuali”. Una vera rivoluzione. Qualcuno, a lui favorevole, gli
rimprovera di non aver dato fede al suo essere essenzialmente “Vescovo di Roma”, come
annunciato dal famoso balcone. Gli va riconosciuto tuttavia di essere diventato vescovo del mondo.
Aver messo le mani sullo IOR, per risanarlo da infiltrazioni malavitose, è stata una dichiarazione di
guerra ai finanzieri di Dio e alimenta la speranza che riesca a trasformarlo in una banca etica. Il
successo ottenuto ha fatto di Francesco un vero “idolo delle genti”, un fenomeno tanto più
entusiasmante quanto evangelicamente temibile come l’Osanna plebiscitario a Cristo nella
Domenica delle Palme. L’entusiasmo delle folle è inaffidabile e gli avversari nelle alte gerarchie del
Sinedrio tramano sempre dietro ad un Rabbì incontrollabile. Lo aspettano al varco di una malattia o
di volontarie dimissioni. Se intende quindi dare un seguito stabile alle sue parole evangeliche, in
perfetta consonanza col Concilio Vaticano II, a Francesco non resta che rendere Documenti della
Chiesa i progetti e i propositi che ha in mente. Papa Giovanni ha compiuto una vera “rivoluzione”
regalando alla Chiesa le nuove Costituzioni del Concilio, cui anche i fedeli possono ricorrere per il
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riconoscimento dei propri diritti. Roncalli ha rovesciato la piramide di una Chiesa non più costituita,
in forma prevalente, dalla gerarchia. Per secoli si insegnava che la Chiesa era una Società Perfetta,
costituita essenzialmente dai suoi ranghi gerarchici. I fedeli erano destinatari di una cieca
obbedienza ai capi. “Perinde ac cadaver”. Ora il Popolo di Dio è sovrano, tornando ad essere
l’anima e il corpo della “ecclesia”, come nella Chiesa pre-costantiniana. L’entusiasmo del Concilio
portava molte avanguardie a proseguire quel cammino nella Chiesa rinnovata, ma Giovanni Paolo II
e Benedetto XVI preferivano rallentarlo, se non arrestarlo, trincerandosi dietro il concetto
identitario tradizionale della Chiesa cattolica. La Restaurazione temuta dai due studiosi della psiche
umana tornava ad avere la sua rivalsa. Il cattolicesimo indulgeva di nuovo a un devozionismo
fuorviante e ad un rigorismo dottrinario che tarpava le ali alla ricerca. Madonne piangenti erano al
seguito del papa polacco, per scomparire, quasi tutte, dietro di lui. Il modello importato era quello di
una nazione martoriata dalle opposte dittature che vedeva nella religione la sola speranza di
salvezza. L’immagine di Maria percorreva le strade della Polonia per liberare un popolo da una
tirannia oppressiva. Riconquistata la libertà, dal nuovo governo quel popolo devoto rivendicava le
leggi libertarie sul divorzio e sull’aborto. L’immagine di Maria finiva col raccogliere polvere in
soffitta e Giovanni Paolo II finiva i suoi giorni col nodo in gola anche per una tale delusione.
Già negli anni 50, prima del Vaticano II, Teilhard de Chardin, gesuita, teologo e scienziato
sosteneva che la Chiesa avesse bisogno di un nuovo Concilio di Nicea. “Occorreva esprimere in
modo diverso l’antica fede ora che la visione del mondo costruita dalla scienza ha modificato tutti i
termini di riferimento della nostra cultura. Il problema cardine della fede cristiana è di rispondere
all’uomo con parole che siano misurate sulla sua esperienza come lo furono quelle antiche del
Concilio di Nicea”. (Balducci). Il Sinodo che sta per iniziare sarà improntato ad una simile
prospettiva? Porterà forse ad un recupero (liturgico) dei divorziati risposati, attraverso un percorso
penitenziale della coppia accompagnata dal vescovo o da un prete incaricato. Di questo soprattutto
si parla, ma i problemi che il mondo moderno pone alla Chiesa sono più vasti e incombenti. Vanno
ben al di là di singoli provvedimenti marginali, che rischiano, tra l’latro, di introdurre nuove sottili
forme di “potere” sulle coscienze dei fedeli. La dignità dei figli di Dio esclude anche il paternalismo
spirituale. Il cristiano non è chiamato a una continua sopravvivenza morale grazie alla
“misericordia”… e al “perdono”... di coloro che si assumono il compito di amministrarli a nome di
Dio. Vivrà in pace con la propria coscienza solo se liberato dai “grossi pesi posti sulle spalle”,
svincolato da leggi farisaiche che permangono a distanza di duemila anni. Il Vangelo parla di
“amore” e all’amore è estranea la compassione. La “misericordia” è un concetto mutuato dal
vecchio Testamento, prerogativa di un Dio Padre-padrone che “mette alla prova” la sua creatura. Il
cristianesimo si realizzerà nella pienezza una volta libero dalla mitologia del Dio biblico, geloso e
vendicativo, modellato ad immagine umana, che sprofonda negli abissi i peccatori, ordina
esecuzioni e stermini. Coscientemente o meno è questa l’idea che continuiamo ad avere di Dio. La
legge di Cristo dovrà disfarsi di una precettistica veterotestamentaria riscattando il cristianesimo
dall’accusa di rimanere “un’eresia dell’ebraismo” (Nietzsche). La nuova dimensione del Dio
cristiano nel vangelo è delineata dalla figura del Padre che lascia il figlio libero abbandonare la casa
paterna, di affrontare la vita lontano da lui, esponendolo al rischio di sbagliare. Non gli dà consigli
nel dolore del distacco, non lo rimprovera quando torna. L’amore di Padre è “gratuito” e lo aspetta
per restituirgli, integra, la sua dignità. Il figlio di quel Padre non ha bisogno di ”Redenzione”…
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La comunione eucaristica, che si renderà accessibile ai divorziati risposati, non mancherà di
creare un inevitabile disagio soprattutto in coloro che mantengono la tradizionale idea puritana del
sacramento, inaccessibile ai peccatori. Per altri figurerà il gesto estremo e accondiscendente di un
padre severo, combattuto tra la conferma di una legge rigorosa che andrebbe cambiata e la volontà
di recuperare i figli ad una mensa familiare sempre più deserta. E’ quanto temevano e lamentavano,
con papa Wojtyla e il card. Ratzinger, gli allora vescovi della Renania Lehmann e Kasper.
Prevedevano lo svuotamento delle loro chiese. Sarebbe forse opportuna una riconsiderazione
dell’istituto stesso del matrimonio da secoli fermo al “matris munus ”, al compito eminentemente
procreativo della donna, concezione agostiniana ampiamente riduttiva e superata. Se la diversità dei
sessi è indispensabile per generare, per amare si sceglie una persona.
La riammissione, sotto condizione, dei divorziati risposati alla mensa eucaristica, si presta ad un
approfondimento del significato stesso dell’Eucarestia. Se perde il senso di vivere in pieno la vita
della comunità, il sacramento rimane nell’ambito dei gesti magici. L’enfasi sulla “presenza reale”
del Corpo di Cristo ha reso meno visibile l’aspetto dinamico di una vita da vivere nella pienezza
con gli altri. Abbiamo così assemblee di mangiatori di ostie, coltivatori maniacali dell’anima
individuale, spesso estranei l’uno alla vita dell’altro. Paolo parlava del ”corpo del Signore che è
l’assemblea”, oggi direbbe “ l’umanità”. Alla Chiesa di Corinto l’apostolo rimproverava come
offesa al Signore che alcuni stavano alla mensa e si saziavano e altri soffrivano la fame. Nelle
chiese si nega la comunione ai pubblici peccatori del sesso, ma si continua a darla a chi rifiuta lo
straniero vicino casa. L’aspetto esistenziale della narrazione evangelica è stato mortificato. La
finzione letteraria dell’episodio di Anania e Saffira (Atti 5) rafforza il dovere di vivere la
comunità. E’ inconcepibile che agli inizi del cristianesimo il primo papa si renda responsabile di un
duplice delitto. La verità del messaggio del racconto resterà nascosta finché si continuerà ad
affermare che la coppia aveva commesso un incomprensibile “peccato contro lo Spirito Santo”. Si è
fatto dell’eucarestia non un modello di vita ma un toccasana per la buona coscienza. E’ necessaria
una rilettura dei Sacramenti, a partire dalla celebrazione eucaristica. Permane scandalosa la
compravendita di “pedaggi per il Paradiso” che provocava la giusta indignazione di Lutero.
Questo, forse, e molto più sarà nella mente di Francesco, ma è necessario che diventi pane
quotidiano delle comunità cristiane, se le sue belle parole non sono destinate a volar via col vento.
E’ necessario riscoprire che il Vangelo non è un Codice Penale ma una Carta dei Consigli, cui si
accede con un ripetuto “Se vuoi”. L’indissolubilità del matrimonio è un valore e un consiglio, alla
stessa maniera in cui lo sono la povertà e il disinteresse raccomandati ai seguaci di Cristo. Coloro
che annunciano il vangelo sono chiamati a farlo senza portare con sé nemmeno l’armamentario
indispensabile per il viaggio. “Renderanno gratis quanto gratis hanno ricevuto”. Prenderanno ad
esempio “i fiori dei campi e gli uccelli dell’aria”. Per questo avremo il coraggio di professarci tutti
eretici e il Vaticano è la Casa Madre di tale inconfessata eresia. Abbiamo fatto una “legge” per il
matrimonio indissolubile, ma non abbiamo codificato la povertà dei seguaci di Cristo, escludendoli
dalla vita della comunità, se inosservanti. E’ molto il vestiario desueto da scartare nel guardaroba
della nostra Chiesa. Si tratta quasi di “rifondare “ il cattolicesimo. Avverrà con un altro Concilio
attuativo del Vaticano II, ampiamente disatteso dal folklore mediatico del papa polacco e dal
rigorismo dottrinale di Ratzinger? Francesco è consapevole che sta solo tracciando l’inizio di un
lungo percorso, muovendo la prima pedina che produrrà una reazione a catena. Sta aprendo nuovi
spazi ma il cambiamento non avverrà col placebo di piccoli provvedimenti in cui i fedeli verranno a
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ritrovarsi ulteriormente aggrovigliati nei cavilli della Legge. Devono tornare ad essere liberi nella
Fede. “La pastorale esemplare e confortante di Francesco, le sue parole e i gesti dovranno costituire
l’anima di una ‘nuova teologia’ liberatoria, a favore dell’uomo”.
Bergoglio e l’impegno politico della Chiesa
Un tema appena sfiorato nella classica intervista di Scalfari a Francesco è quello dell’impegno
politico della Chiesa. Bergoglio affermava che “la Chiesa non si occuperà di politica”…”Le
istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti“. Un discorso dal
quale risultava almeno già delineato il progetto di una Istituzione che non scende a “compromesso”
con la politica. La Chiesa che vuole Francesco non si immischierà nei traffici dei partiti e dei
governi, per trarne vantaggi. Non “imporrà” i propri valori “non negoziabili” facendo pressione
sulle leggi dello Stato laico. Questo leggiamo nelle parole del papa e che era già scritto nei
Documenti del Concilio.
Tuttavia una fede religiosa che non si esprimesse sui temi scottanti della conduzione della cosa
pubblica rappresenterebbe una fuga dai problemi dell’uomo. Il Maestro non fu al di sopra delle
parti. Il Vangelo fa estrema chiarezza sul valore fondamentaledella giustizia: proclama beati i
poveri, ammonisce i ricchi che ne portano la responsabilità. L’agape cristiana non si accontenta
della carità. Maria esalta un Dio che “rovescia i potenti dai loro troni e innalza gli umili, rimanda i
ricchi a mani vuote e colma di beni chi ha fame”. E’ l’”impegno politico” del Vangelo.
Il papa ha confessato la sua stima per i teologi della Teologia della Liberazione che “erano
credenti e con un alto concetto di umanità”. Tuttavia, prosegue, “ davano un seguito politico alla
loro teologia”. E’ a conoscenza di tutti che quei religiosi difendevano i diritti delle loro popolazioni
contro i regimi dittatoriali dei Paesi in cui vivevano. Francesco ricorda, con grande stima, una sua
professoressa, oppositrice, “persona coraggiosa e onesta”, che gli era stata di grande aiuto. ”Fu poi
arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina”. Anche alcuni
gesuiti della Provincia di cui era a capo l’allora giovane Bergoglio, furono arrestati e torturati. Tanti
“desaparecidos” furono reclamati invano dalle loro mamme in Plaza de Mayo. Bambini, orfani dei
genitori scomparsi, venivano sottratti con la forza alle famiglie per essere affidati ai militari del
regime. Un abominio e un genocidio che le Madri di quella Plaza continuano a piangere. Né la
Chiesa di Roma né quella argentina alzarono la voce contro la dittatura di Videla. E’ l’accusa che
quelle donne rivolgono alla Chiesa. Hanno chiesto a Francesco di celebrare in Vaticano una messa
in suffragio delle decine di religiosi uccisi dalla dittatura di Videla. Se avverrà vi parteciperanno
anche loro in segno di pacificazione. Il mondo ricorda un altro papa, difensore per eccellenza dei
diritti umani nel mondo d’oltrecortina ma che in Cile si affacciava al balcone accanto a un dittatore
sanguinario che si professava cattolico. In Argentina, in Cile, in San Salvador e in altre dittature del
Sud America la Chiesa istituzionale si giustificava dichiarando di tacere per “prudenza”. Come
avveniva sotto il nazismo e il fascismo. Il silenzio e la prudenza, Bergoglio lo sa, sono ugualmente
una “scelta politica”. La prudenza che tollerava i crimini e la repressione dei diritti delle persone
non veniva dal Vangelo: era il calcolo interessato di una Istituzione che mira a salvaguardare se
stessa. I Teologi della Liberazione furono ripetutamente condannati da due papi. Il loro schierarsi
contro le dittature fu un’”imprudenza”, cristianamente doverosa. Come quella del giovane Rabbì
che affrontava i Farisei. Con lo stesso metro di condanna la Santa Sede giudicava la testimonianza
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del martire Oscar Romero, cui Giovanni Paolo II raccomandava di “trovare l’accordo” con quel
regime sanguinario che lo avrebbe fatto massacrare sull’altare. Romero fu fatto santo dal suo
popolo subito dopo la morte, secondo la consuetudine della Chiesa delle origini. E’ stato santificato
in Piazza san Pietro grazie all’avvento di papa Bergoglio.
La dottrina sociale della Chiesa
Nell’intervista rilasciata ad Andrea Tornielli sulla Stampa, Bergoglio affermava di avere come
punto di riferimento in politica unicamente la Dottrina Sociale della Chiesa. Maggiore chiarezza
andrebbe fatta riguardo alla visione che la Chiesa ha del proprio impegno politico nella storia dei
due secoli che ci precedono. La Dottrina Sociale della Chiesa nasceva nel 1891, con la Rerum
Novarum di Leone XIII, più di 50 anni dopo le prime lotte operaie del secolo. Per la prima volta in
un suo Documento ufficiale della Chiesa si prendeva coscienza delle “mutate relazioni tra padroni e
operai”. Nell’enciclica di un papa si poteva leggere dell’”essersi accumulata la ricchezza in poche
mani e largamente estesa la povertà”; di essere “di estrema necessità venir in aiuto e senza indugio e
con opportuni provvedimenti ai proletari”. Si denunciava che “le istituzioni e le leggi venivano
allontanandosi dallo spirito cristiano, e che, a poco a poco, gli operai rimanevano soli e indifesi in
balia della cupidigia dei padroni”. Parole che ricalcavano con fedeltà i temi delle rivendicazioni
operaie. Con buona ragione Berlusconi avrebbe accusato papa Leone di essere un “comunista”.
Quelle parole risentivano del linguaggio dei proclami socialisti di metà Ottocento. La Chiesa
riscopriva la massima evangelica che “l’operaio ha diritto alla sua ricompensa”. Ma Bergoglio sa
bene che quei pronunciamenti sorprendenti, inaspettati da parte di un papa e l’impegno che
presupponevano anche da parte di tutta la Chiesa, furono ben presto disattesi dall’antimodernismo
di Pio X. Scomparivano per sempre da tutte le dichiarazioni successive del Magistero... Non furono
certamente l’anima delle scelte della Chiesa durante il fascismo quando dimenticava gli operai e
stipulava Patti col regime, a salvaguardia dei propri interessi. I cinquant’anni di Democrazia
Cristiana vedevano la Chiesa legata al governo dello scudocrociato e non dalla parte delle classi
subalterne. Le migliorate condizioni della classe operaia e la Carta dei diritti dei lavoratori furono
merito delle rivendicazioni di partiti che l’Istituzione ecclesiastica ripetutamente condannava. La
Dottrina Sociale della Chiesa era rimasta latitante sin dalla nascita. Veniva nominata nei congressi
della DC andreottiana come copertura e fiore all’occhiello di una politica democristiana clientelare,
ben lontana da quanto rivendicava l’Enciclica di papa Leone. Col governo Berlusconi si scatenava
una continua caccia a privilegi, esenzioni, con pressioni costanti e indebite sulle leggi dello Stato.
In cambio il Cavaliere poteva godere di benevoli trattamenti e “contestualizzazioni” delle sue
scandalose esibizioni. Un bilancio decisamente fallimentare quello della Dottrina Sociale della
Chiesa di cui si dovrebbe essere consapevoli guardandosi dal chiamarla in causa. La Chiesa
dovrebbe piuttosto fare ammenda delle sue negligenze, meno che mai appropriarsi di meriti altrui.
Il movimento operaio, oggetto di scomuniche pontificie, è stato un forte stimolo perché la Chiesa
riscoprisse la sua missione di vicinanza agli ultimi, i principi che animavano le sue stesse comunità
delle origini. Il risveglio di una nuova coscienza di impegno proveniva dalle lotte operaie della
seconda metà del Novecento, dai Padri Conciliari del Terzo Mondo, dai teologi della Liberazione.
Dopo secoli di cristianesimo nasceva la consapevolezza che la Carità non è la beneficenza che il
ricco fa al povero, ma il riconoscimento dei diritti delle persone nel rispetto della dignità dell’essere
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umano. Un dovere cristiano che Bergoglio in parte sta risvegliando ma che non potrà far passare
come merito esclusivo della Chiesa.
Una doverosa riabilitazione
Il papa offre la speranza di un reale cambiamento che è ancora all’inizio e non potrà limitarsi al
solo aspetto pastorale. In occasione del Giubileo, da cardinale di Buenos Aires, pubblicamente
dichiarava che la Chiesa Argentina doveva chiedere perdono per non aver difeso abbastanza i diritti
umani dei propri cittadini durante la dittatura. Coerentemente si spera che ritenga suo dovere
restituire la parola a quei teologi ridotti al silenzio. Quei diritti a favore del popolo essi li
rivendicavano, rischiando la vita, mentre quelle dittature erano in atto. Alcuni di loro si sono
presentati spontaneamente al papa per comunicargli la loro condivisione di una nuova realtà
ecclesiale che essi da sempre auspicavano. Tuttavia, al di là di quello che può costituire un rapporto
con la persona del papa, Francesco rappresenta la Chiesa che li ha puniti ed emarginati. Ad essa
tocca ora riconoscere il proprio errore e riabilitarli. Sono accorsi entusiasti a Santa Marta verso una
sorta di auto-riabilitazione, onda lunga di un sentimento di appartenenza alla Madre che li aveva
scacciati di casa. Da essa sperano di essere “riconosciuti”, verso il tramonto della vita, dopo tante
lotte e umiliazioni. Ma il grande passo sono stati loro a farlo, quei figli che hanno precorso i tempi
di una sensibilità di cui oggi è portatore il papa in persona. La loro riabilitazione ufficiale è un
dovere di giustizia, di onestà intellettuale e morale da parte della Istituzione. Solo in tal modo essa
tornerà a dare testimonianza di un cambiamento credibile. L’incontro con Francesco non resterà
frutto di compiacenze e simpatie personali. Non si fermerà all’abbraccio di un papa accogliente, per
quanto sia in aperta, profetica rottura col passato. Con spirito penitenziale il papa eviterà
l’operazione camaleontica che fa appello alla poca memoria storica degli errori della Istituzione. Un
fattore sul quale il mondo clericale giostra con calcolata disinvoltura. Il messaggio cristiano è
annuncio di “liberazione dei prigionieri”, anche di una Chiesa vincolata alla propria orgogliosa
autosufficienza e autoreferenzialità.
Padre Pio al Giubileo della Misericordia?
Ha sorpreso non poco la decisione di Francesco di portare le spoglie di padre Pio a Roma in
occasione del Giubileo. La devozione al frate dovrebbe rendere maggiormente efficace il messaggio
di “misericordia” lanciato dal papa. In molti ricordiamo un frate abbastanza severo e brusco con i
penitenti, specie se non rigorosamente democristiani o che indulgessero al minimo dubbio di fede.
“Una fede che non dubita è una fede già morta”, scriveva il filosofo Miguel de Unamuno. Al
religioso di san Giovanni Rotondo sfuggivano i dubbi che assalivano Cristo nel Getsemani o
quando sulla croce metteva in discussione perfino l’amore del Padre. Il movimento intorno al
Santuario e alla persona di padre Pio ha rafforzato una devozione ai limiti del fanatismo e di una
speculazione commerciale senza controllo che fa scandalo. Nulla di francescano. Nella graduatoria
della “devozione popolare” Padre Pio e papa Wojtyla precedono Nostro Signore di una decina di
posizioni. Una sana pratica religiosa si “riconosce dai frutti” di una fedele comprensione del
messaggio evangelico. Nel fenomeno san Giovanni Rotondo sembra aver preso il sopravvento una
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filosofia da baratto medievale tra spirito e materia in cui domina, soprattutto, lo sfruttamento della
buona fede e della sofferenza di persone in buona fede. Apprezziamo il Medioevo per l’arte, per i
grandi Maestri del pensiero; amiamo il monachesimo di san Benedetto, prezioso per l’evoluzione
morale e sociale della società; ci sentiamo debitori verso la pazienza di amanuensi e traduttori che
hanno messo in salvo per noi preziosi testi dell’antichità. Tuttavia portare i santi in processione per
scongiurare disastri naturali, epidemie e guerre era un modo di esprimere una devozione
rispondente ai canoni della conoscenza e della cultura del tempo. In tutte le epoche la Fede è
chiamata a rispondere all’uomo con parole e gesti misurati sulla esperienza del presente, non su una
cultura legata ad un mondo che non esiste più. “Non si mette il vino nuovo in otri vecchi”. La
accattivante novità di Francesco è proprio questa. La Tradizione, prima di diventare tale è stata essa
stessa una innovazione, diceva papa Giovanni. L’uomo di oggi basa la sua fiducia e fonda le proprie
credenze su forme più evolute di conoscenza, pur consapevole di inevitabili margini di incertezza.
Ora riponiamo la speranza della guarigione negli ospedali, nelle medicine, non nelle reliquie dei
santi, negli oli sacri e nei gesti del clero. Preveniamo le epidemie con l’igiene personale e pubblica,
costruiamo case antisismiche e contro le guerre lottiamo per il disarmo universale. Magari
affidiamo al Totocalcio e al Gratta-e-vinci un migliore tenore di vita e all’Oroscopo la previsione
del futuro. Paghiamo il debito a moderne superstizioni, ma lasciamo in pace i santi rendendoli
disponibili per “miracoli” a favore dell’intera umanità. Oltre che graziare la solita suora che li sogna
di notte, i santi facciano “fiorire il deserto” africano, per la sopravvivenza di milioni di persone. E’
scritto nella Bibbia che è possibile. Assecondare le aspettative di tanta povera gente, legandola al
culto strumentale dei santi, è un pericoloso inganno della Fede. Il miracolo cui aspirava Cristo era la
conversione del cuore dell’uomo, perciò amiamo credere che, davanti alle spoglie del frate, il
“cattolico” Salvini e il rancoroso giullare nazionale riescano a provare “misericordia” per il
clandestino nero che li ossessiona. Il Giubileo raggiungerebbe al massimo il suo scopo. La
devozione ai santi, riscoperta dal Vaticano II, ribadisce il dovere di imitare la vita dei campioni
della Fede, non di abbandonarsi all’equivoca venerazione di spoglie mortali. Il convento di san
Giovanni Rotondo fu, tra l’altro, luogo molto discusso e di grande contraddizione, come la figura
stessa di padre Pio. “Disturbo istrionico di personalità”, “disturbo di trance dissociativa”,
sentenziava del frate il laico Luigi Cancrini, Dsm 4 alla mano. Anche padre Agostino Gemelli, in
precedenza, rilasciava una diagnosi simile, se non di peggiore impatto. “Nevrosi e Santità” di Jean-
Martin Charcot fa sempre scuola. Nel suo lavoro di ricerca e di scavo archivistico Sergio Luzzatto
prende le distanze sia dai devoti che dai detrattori del religioso di Pietrelcina e parla del convento
del Gargano come di “un’avventurosa storia di frati e soldati, pontefici e gerarchi, beghine e spie”.
Molto grave fu la strage di San Giovanni Rotondo nell’ottobre del 1920. Dopo le elezioni politiche
vinte dai socialisti, nel paese ci fu uno scontro armato con 14 morti e un centinaio di feriti. Ai
vincitori era stato impedito l’accesso al Municipio dalla parte avversa formata dai popolari di don
Sturzo alleati con la destra e col Fascio nascente. La bandiera degli “Arditi di Cristo”, gli ex
combattenti, recante insegne pontificie, era stata benedetta da padre Pio in persona. Sulla strage il
frate non si pronunciò. Nella tragica vicenda della Prima Guerra Mondiale il religioso si era anche
mostrato un accanito interventista. Raggiri e speculazioni portarono sotto inchiesta da parte del
Vaticano stesso l’organizzazione e la struttura del convento. Non senza motivate ragioni. Francesco
non avrà avuto buoni informatori a riguardo. Il fatto che il frate venga prima di Gesù Cristo nella
venerazione dei fedeli dovrebbe allertare il mondo religioso. Cosa avrebbero da imitare i fedeli
nella figura di padre Pio è ben difficile da scoprire. I Miracoli? Il Vangelo racconta che quando a
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Cristo furono richiesti prodigi da una folla esaltata, il Maestro, nascondendosi, scivolò tra di essa
proseguendo il suo cammino. Il Giubileo prenderà piuttosto ispirazione da Assisi, dal santo che per
miracolo offre un modello di vita.