sabato 25 marzo 2017

Sentenza contro il velo islamico. Così si legittima un pregiudizio

«È una sentenza che legittima, se si legge in maniera approfondita, una sorta di pregiudizio rispetto a quella parte di Islam che rispetta in maniera intransigente le leggi coraniche»: è il giudizio che sulla sentenza della Corte europea mi dà, a caldo, Marco Ventura, uno dei più prestigiosi studiosi di diritto delle religioni. In particolare s'interessa proprio di Diritto e Islam e di diritto canonico e il suo libro più recente, Creduli e credenti.
Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, ha affrontato proprio alcune delicate tematiche legate alle libertà religiose. Si sta parlando, in questo caso, della sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dato ragione a due aziende, una francese e l'altra belga, che avevano licenziato due dipendenti proprio perché portavano il velo islamico sul lavoro. In sostanza questo importante organismo dell'Europa unita ha sentenziato che un'azienda privata può istituire una norma per vietare a una dipendente di portare il velo islamico durante i contatti con i clienti. «È un'applicazione della legge - mi dice ancora lo studioso - che può spianare la strada ad un modo errato per piacere a certi tipologie di clienti si finirebbe, infatti, con il premiare quelle fette di pubblico che mostrano ostilità alla esibizione di simboli religiosi. In particolare, in questo caso, quelli islamici».
Con questa sentenza ritorna attuale una questione che ha diviso, negli ultimi anni, l'opinione pubblica dei diversi Paesi: la questione della possibilità o meno, per le donne islamiche, di coprirsi il capo con un velo. La sentenza europea, giocando sul filo delle raffinate norme legali, stabilisce di fatto che questo divieto, se scaturisce da una norma interna applicabile a chiunque indossi in modo visibile simboli politici, filosofici o religiosi sul luogo di lavoro, «non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva». Una «discriminazione indiretta» si realizzerebbe qualora fosse dimostrato che l'esigenza di neutralità dell'impresa sia stata attuata solo per i dipendenti aderenti a una determinata religione o ideologia. L'euro-sentenza, alla quale si dovranno uniformare leggi per ora diverse dei singoli Stati, diventa un punto di riferimento legale per i casi simili che si dovessero registrare nei 28 Paesi dell'Ue.
L'argomento è stato oggetto di aspre dispute in molti Paesi, specie del nord dell'Europa dove, da qualche tempo, si conducono furiose campagne anti-islamiche. È così? Questa sentenza è, nei fatti, un cedimento a questi settori più intransigenti che si battono contro la realizzazione di società multietniche? Chiedo a Marco Ventura. «È evidente che il clima che si respira, in questa stagione, nel nostro continente e non solo, può aver pesato. Forse, dico forse, da questo punto di vista, la Corte di Lussemburgo - risponde – non ha voluto disattendere le attese di quella parte d'Europa che non rinuncia a mettere pressione su quel pezzo più intransigente di Islam. Non darla, cioè, vinta a quell'Europa della multiculturalità che si mostra più ottimista verso la possibilità d' integrare mussulmani integralisti».
I fatti sono noti e sono stati ricordati proprio durante i lavori che hanno portato alla sentenza degli eurogiudici. In Belgio un'azienda, assunse nell'ormai lontano 2003, Samira Achbita, una donna di fede mussulmana: doveva accogliere i clienti e assolvere, di fatto, a funzioni di relazioni pubbliche. Una regola che si tramandava in azienda, ma che non era mai stata scritta, vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche o religiose. Tre anni dopo l'entrata in servizio, la signora informò il datore di lavoro di voler indossare, in servizio, il velo. Inizia così un lungo braccio di ferro che porterà al licenziamento della donna. Di giudizio in giudizio, si è poi arrivati fino alla discussione e alla sentenza della Corte Europea. Tanto più che sul tavolo dei giudici era, pendente, anche un'altra vicenda, un caso simile avvenuto però in Francia, dove un'altra donna, sempre di fede islamica, Asma Bougnaoui, era stata licenziata perché, a qualche cliente dell'azienda per la quale lavorava, non era piaciuto che indossasse il velo. E siccome, come si dice, il cliente ha sempre ragione a farne le spese era stata la signora: licenziata in tronco.
In Italia c'è chi ha applaudito alla sentenza: sono stati in genere quegli ambienti che manifestano costantemente atteggiamenti anti-islamici. Oltre a settori dell'imprenditoria che vedono nella sentenza della Corte la possibilità di limitare, anche da noi, la libertà di espressione religiosa. Una lettura più attenta della stessa sentenza dovrebbe indurre a ragionamenti meno oltranzisti. «Sì, si tratta di una sorta di discriminazione indiretta – finisce Marco Ventura – con delle norme che appaiono formalmente corrette, ma in realtà si prestano poi a letture che rischiano di ledere i diritti, proprio sul piano del rispetto delle diverse pratiche religiose ».
Maurizio Boldrini

(L'Unità, 16 marzo)