Quando alcune settimane fa la scrittrice di Kabul Bahar Sohaili e un ristretto gruppo di attiviste hanno lanciato la campagna #WhereIsMyName (dov’è il mio nome, ndr) pensavano che la lotta per veder riconosciuto alle connazionali il diritto a essere chiamate con il proprio nome fosse destinata alla piazza locale, quell’infelice Afghanistan ostaggio di taleban e mujaheddin dove le donne non dispongono neppure dell’identità anagrafica e con la scusa della tutela dell’onore vengono appellate con epiteti generici come «zia», «madre di», «sorella di latte», «testa nera». Invece, dopo aver incassato il sostegno del popolare cantante pashtun Farhad Darya, che si è immortalato per la causa accanto alla moglie Sultana, Bahar e le altre hanno visto la loro battaglia prendere il largo fino a raggiungere i media internazionali, solitamente più interessati a quando piegano la testa che a quando temerarie la sollevano.
E
pur si muove. Dalle remote pendici dell’Hindu Kush al focoso
Medioriente, dall’Iran delle ragazze no-chador che ogni mercoledì ne
indossano uno bianco per riconoscersi e contarsi senza rischiare
l’arresto (#whitewednesdays) fino all’India repubblicana ma
iper-conservatrice dove da giorni gruppi di amiche rifiutano l’impunità
delle molestie e sfidano il coprifuoco coordinandosi con l’hastag
#AintNoCinderella, il secondo sesso agita il mondo al di là dei confini
europei. Piccoli passi, meno clamorosi di quelli degli uomini che dagli
stessi lidi guerreggiano, pontificano invocando il cielo o emigrano, ma
che evocano la sempre valida distinzione dello storico Braudel tra la
rapida superficialità della rivoluzione e la penetrazione lenta
dell’emancipazione.
«Chi si
aspettava la marcia del bikini contro l’islamismo è rimasto deluso ma
non capisce che in una società maschilista come la nostra una ventina di
donne in due pezzi sulla stessa spiaggia nello stesso momento sono la
sola strategia possibile per rompere il muro dei tabù» racconta a «La
Stampa» la giornalista algerina Leïla Beratto. Da settimane si scrive
del «bagno repubblicano» che il 7 agosto avrebbe dovuto scandalizzare la
cittadina di Annaba con ombelichi ribelli alla Brigitte Bardot. E
giacché l’esercito delle scostumate non si è materializzato si è gridato
alla fake news. In realtà, continua la Beratto, qualcosa è successo
eccome: «La spiaggia in Algeria è una scommessa, io stessa non andrei
mai senza un amico perché vedendo una ragazza sola gli uomini si sentono
autorizzati a molestarla. Non è questione di bikini o burkini, qui
vanno quasi tutte in lunghe tuniche coprenti». Così su Facebook un
gruppo di donne di Annaba ha lanciato
l’idea di scegliere un certo giorno per indossare il due pezzi
prendendo il sole in compagnia del marito o del fidanzato. Un modo per
ritrovarsi sia pur da lontano e farsi coraggio a vicenda. A fare da
cassa di risonanza poi è stata la voce di una delle «organizzatrici»,
una giornalista. «Ma se su Facebook ci sono oltre 3000 iscritte in
spiaggia non vanno più di una ventina alla volta. È comunque molto qui, è
un inizio».
Le
donne, diverse da noi di cui parliamo spesso, si esprimono poco perché
il volume è basso. Ma con l’amplificazione di Internet è sempre più
facile ascoltarne la voce. E quest’estate 2017 l’acustica sembra
particolarmente buona. Così, per le tante che affollano i parrucchieri halal in cui acconciare l’hijab
secondo la morale di Erdogan, ci sono migliaia di turche di ogni età
irriducibili all’islamizzazione dei costumi voluta dal Partito per la
Giustizia e lo Sviluppo. A fiumi, velate e a chiome sciolte, hanno
riempito le strade di Istanbul all’inizio di agosto sventolando
pantaloncini come quelli che indossava Asena Melisa Saglam il 18 giugno
scorso prima di essere aggredita da barbuti furibondi per la presunta
profanazione del Ramadan.
Si
procede per strappi e ritirate tattiche. Si avanzano due passi, se ne
arretra uno e si riparte. Come al Cairo, dove le studentesse che alla
fine dell’ultimo anno accademico hanno denunciato gli abusi dei
professori con la campagna «No sex for marks» (no sesso per voti, Ndr) e
sono state messe alla gogna prima di essere vendicate dal video postato
nei giorni scorsi sui social in cui un docente ripreso in segreto con
il cellulare «ordina» all’allieva di spogliarsi.
E
come in Giordania, dove la settimana scorsa mogli, madri e figlie hanno
sfilato davanti al Parlamento brandendo cartelli con scritto «no 308»,
il numero della legge di cui si discuteva l’abrogazione secondo cui lo
stupratore che sposa la sua vittima si risparmia il carcere. È una
materia che l’Italia conosce bene, avendo mandato in pensione «il
matrimonio riparatore» soltanto nel 1981, quasi vent’anni dopo il no
pioniere di Franca Viola.
La Stampa del 10 agosto