La
più popolare preghiera del mondo è rivolta al “Padre nostro che è
nei cieli”. Potrebbe darsi che la preghiera più antica fosse
diretta allo stesso Padre celeste; questo spiegherebbe la
testimonianza di un Africano della tribù degli Ewe: “Dove è il
cielo, ivi è anche Dio”. Cerchiamo di capire il significato
religioso del Cielo in sé. Senza neppure ricorrere alle favole
mitiche, il Cielo rivela direttamente la sua trascendenza, la sua
forza, la sua sacralità. La contemplazione della volta celeste, da
sola, suscita nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa. Il
Cielo si rivela per quel che è in realtà: infinito, trascendente.
La volta celeste è per eccellenza “cosa del tutto diversa” dalla
pochezza dell’uomo e del suo spazio vitale. Il simbolismo della
trascendenza si deduce, diremmo, semplicemente dalla constatazione
della sua infinita altezza. “L’altissimo” diventa, nel modo più
naturale, un attributo della divinità. Le regioni superiori,
inaccessibili all’uomo, le zone sideree, acquistano i prestigi
divini del trascendente, della realtà assoluta, della perennità. Il
Cielo “simboleggia” la trascendenza, la forza, l’immutabilità,
semplicemente con la sua esistenza. Esiste perché è altro,
infinito, immutabile, potente.